Quanto siamo performanti!
Performance: Ne ho iniziato a sentir parlare in maniera sempre più frequente quando ho messo piede nel fanta-meraviglioso mondo del lavoro, precisamente nel momento in cui sono uscita dall’università carica di belle speranze e sogni scintillanti. L’ingresso nel mondo della consulenza mi ha fatto rendere conto abbastanza velocemente dell’importanza di questa parola.
L’HR la usa per giustificare la cultura aziendale o per premiare gli sforzi dei dipendenti, il top management per sottolineare l’importanza della stessa per il raggiungimento di determinati obiettivi. Insomma, sul podio delle parole chiave del mondo del lavoro odierno, dopo il verbo fatturare io metterei performance (e al terzo posto fallimento but that’s another story for another time).

Illustrazione iper-performante della pazzeska @francesca_colombara
Viviamo tempi incredibili in cui è imperativo mostrarsi e possibilmente farlo sfoderando il nostro volto migliore. Poco importa se è un volto filtrato, se ci è costato soldi, se abbiamo sacrificato il nostro tempo per ottenere questa vita patinata (vedasi: lavoro in straordinario).
L’importante è postare l’Instagram story che lasci immaginare quanto siamo felici o aggiornare la posizione lavorativa su LinkedIn per sottolineare quanto siamo bravi. Quanto siamo performanti!
L’evoluzione odierna della società e della comunicazione si sta orientando sempre di più verso il soddisfacimento di un bisogno di riconoscimento che tutti ormai nutriamo dal momento stesso che restiamo incastrati negli ingranaggi dei social media. Anche l’ambiente lavorativo attuale si è evoluto diventando estremamente iper-competitivo, complesso e volatile. E per sopravvivere in tale ambiente, le aziende hanno bisogno più che mai dei propri dipendenti.
È su questa matrice che trova il suo spazio la cosiddetta cultura della performance.
Cultura della Performance: di cosa si tratta?
Gartner, società leader di ricerca e advisory, definisce una “High-Performance Culture” come “un ambiente fisico o virtuale progettato per rendere i lavoratori il più efficaci possibile nel supportare gli obiettivi aziendali e apportare valore“. Ma cosa rende davvero un lavoratore efficace?
Quello che spesso accade nelle aziende dove viene attuata questa cultura ad alte prestazioni è che il focus principale diventa il profitto anziché il dipendente. Queste aziende presentano tutte delle caratteristiche comuni. In generale si riscontra un clima di paura verso il top management. D’altra parte, chi è che ha il coraggio di segnalare ai capi situazioni scomode quando c’è il processo di valutazione dei dipendenti in corso e la promozione in palio? Qualcuno la chiamerebbe ritorsione, altri direbbero solo “non hai raggiunto gli obiettivi per quest’anno ma in ottica di crescita puoi lavorarci su per l’anno prossimo”. E con le mani ciao ciao all’aumento di stipendio.
Altro tratto comune è la scarsa fiducia tra collegh*, poco inclini allo scambio reciproco di conoscenze o al supporto degli ultimi arrivati, perché tutti troppo proiettati in un gioco (al massacro) dove può vincere solo il più forte …e non il più collaborativ*.
Gli orari di lavoro sono insensati (e gli extra non retribuiti). Tipicamente è apprezzato il dipendente che lavora di più, mentre quell* che stacca all’orario previsto da contratto è etichettat* come nullafacente. Prove a supporto della correlazione tra orari massacranti ed efficienza? Non pervenute. Anzi.
I dipendenti sono incoraggiat* a non prendere troppa iniziativa. È fondamentale il mantenimento dello status quo e ogni voce fuori dal coro non è vista come innovativa ma come una minaccia alle logiche di sfruttamento in essere, che potrebbero essere messe in discussione.
Generalmente, il dipartimento HR centrale si prodiga nell’invio di una carrellata di email sui programmi di gender equality, diversity&inclusion, o come siamo stati eletti Top Employer dell’anno. Un tentativo maldestro di indorare la pillola mentre “ai piani bassi” si respira aria intrisa di malumori e si assiste ad un alto turnover, gossip e corsie preferenziali.
Dunque, l’obiettivo da raggiungere è il successo ad ogni costo, a discapito della possibilità di sbagliare. Esatto amic* da casa che ci stai leggendo, successo ad ogni costo significa anche quell’esaurimento nervoso dal quale stiamo sfuggendo a fatica e che prima o poi ci acchiapperà e ci porterà a dare le dimissioni per aprire un chioschetto di bibite su una spiaggia di Lanzarote.
Cultura della Performance vs Cultura della Crescita
E se invece riportassimo l’accento sull’elemento umano? Si potrebbe parlare allora di cultura della crescita.
In un articolo per l’Harvard Business Review (“Create a Growth Culture, not a Performance Obsessed One”) Tony Schwartz illustra quali sono i 4 pilastri necessari per creare una cultura della crescita in azienda:
1. Ambiente sicuro
Un ambiente sicuro in un’organizzazione è un posto dove ogni dipendente non ha timore ad esprimere le proprie opinioni e il proprio potenziale. Nonostante ognuno resta responsabile delle proprie azioni, non è limitato in esse. Questo permette ad ogni dipendente di mettersi in gioco assumendosi più serenamente rischi misurati ed uscire dalla “comfort zone” (e quindi di crescere) senza la pressione psicologica di probabili ritorsioni varie.
2. Continuo apprendimento
In un’azienda dove è attuata una cultura della crescita c’è particolare attenzione alla formazione e all’apprendimento continuo. L’autoritarismo, il giudizio e la certezza cedono il passo a valori come la curiosità, la ricerca, il pensiero critico, la creatività e la trasparenza. Questo diventa terreno fertile ideale per l’innovazione, che spesso porta a prestazioni migliori.
3. Sì agli sbagli (e agli esperimenti)!
I dipendenti non sono robot ma esseri umani e in quanto tali possono sbagliare. Il fallimento non dovrebbe essere una giustificazione per mobbizzare un* collega, demansionarl*, sminuirl* o per tracciare quella linea netta tra vincitori e perdenti. Nascondere gli errori o evitare i problemi non porta ad alcuna crescita né per l’azienda né per i dipendenti. Normalizzare gli sbagli, invece, significa permettere a chiunque di mostrarsi vulnerabili e allo stesso tempo accountable per le proprie azioni: c’è più stimolo ad analizzare la causa dell’errore e a trovare nuove soluzioni. Il fallimento è un’opportunità per ripartire nonché parte del processo di apprendimento. Questo può portare a sperimentare, sviluppare nuove idee e best practices. E lasciarsi quindi alle spalle il “si è sempre fatto così”.
4. Feedback continui e reciproci
La capacità di fornire critiche costruttive anziché critiche sterili fa la differenza tra un “capo” e un “leader”. Essere disposti sempre a condividere le conoscenze sulla base della propria esperienza e a lavorare in squadra in ottica di miglioramento continuo e reciproco è la chiave per il raggiungimento degli obiettivi e allo stesso tempo garanzia di crescita professionale di qualsiasi persona.
My final two cents
La cultura della performance a lungo termine non porta ad una crescita sostenibile. Sono gli ambienti di lavoro tossici che fanno crollare i profitti e forse, complice anche la pandemia che ci ha stravolto le vite, non siamo più disposti a decentrare le nostre esistenze.
Il cambiamento è possibile e deve essere trasversale: nonostante io abbia superato da un pezzo l’adolescenza, appartengo ancora a quella schiera di sognatori che crede che la differenza possa farla chiunque, non c’è bisogno di essere CEO di qualcosa. Quei 4 pilastri della cultura della crescita possono essere seguiti anche da chi si sente l’ultima ruota del carro aziendale nel modo in cui si rivolge agli altri.
Sarebbe bello – e a tratti audace – che, come lezione post-pandemica, ci portassimo dietro anche questa: smettere di dare priorità esclusivamente alla contabilità e ai fogli Excel e ripartire concentrando lo sguardo sulle persone.
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Articolo ideato e scritto da Maria Grazia Nardoianni, Cyber Security Consultant @BIP e Mentor @Futura
Illustrazione ideata e prodotta da Francesca Colombara, Illustratrice e Co-Founder @Ciang
Sei una bravissima analista…..un’ottima osservatrice….e una chiarissima divulgatrice…..come solo chi ha un’ampia conoscenza del problema può essere.
Complimenti