La mindfulness come pratica per l’accettazione dell’altrə

 

Sì, ammetto che anche stavolta sono scaduta nella spiritualità postmodernista bianca occidentale più mainstream. Mi sono fatta trasportare dalla ventata di aria fresca di settembre e mi sono data alla lettura di manuali su manuali spicci e di auto aiuto sulla mindfulness. Ho scoperto che la parola mindfulness significa prima di tutto prestare attenzione e per farlo con consapevolezza sono necessarie tre condizioni. Averne l’intenzione, non proferire giudizi ed essere presenti nel qui ed ora (consiglio di rileggersi Seneca e il suo pezzo sull’evergreen “hic et nunc” nel De brevitate vitae).

La pratica della mindfulness ha poco a che fare con il lusso di chi può permettersi (per tempo e costi) ritiri spirituali new age con jacuzzi riscaldate e petali di Kinabalu Golden Orchidea, bowl con bacche di goji bio e super food gourmet. Essa trova le sue radici in un mondo altro rispetto a quello del consumismo post fordiano occidentale: ebbene sì, quello del buddhismo e della meditazione di consapevolezza

In suntissimo, si parla di meditazione di consapevolezza per designare una tipologia specifica di meditazione introduttiva adattabile ai contesti quotidiani (guru e guide varie della mindfulness vi prego perdonatemi per questa riduttività disarmante manco fossi discepola diligente del credo professato da www.riassunti.it).

Illustrazione magica ed eterea di @valentina_bongiovanni

Il punto focale per un corretto esercizio di tale pratica non è dunque solo l’attenzione ma piuttosto come la usiamo e dove la dirigiamo. Il focus attentivo sul quotidiano, sulle piccole azioni come fare il caffè o innaffiare le piante, diventano la conditio sine qua non il nostro benessere è garantito. La mindfulness ci insegna a rivalutare il semplice, ciò che diamo per scontato, meccanico, automatico come la frequenza del nostro respiro, il colore della federa del cuscino, la consistenza dell’erba sotto i piedi, la piacevole ruvidezza delle pagine di un libro, l’odore della brezza autunnale. Ci insegna cioè a essere costantemente presenti ai nostri sensi con metodicità e calma, tipo un metti la cera e togli la cera molto lento, pensato e catartico.

Detta così è easy peasy lemon squeezy. In realtà serve un sacco di allenamento. Abituatə come siamo alla velocità, all’immediatezza, alla sollecitazione esterna, alla novità, al consumo, al fast; fermarci un momento, attendere, rallentare, meditare, sentire come il nostro corpo reagisce, interessarci nuovamente al conosciuto, risulta spesso essere un’azione piuttosto ostica. Per darvi l’idea della difficoltà, io comparo la fatica di essere presente a me stessa alla capacità di guardare tre metri sopra il cielo senza cringiare: IMPOSSIBILE VI GIURO.

Praticare la mindfulness non significa garantirsi a vita l’accesso al Nirvana (a cui peraltro vorrei sottolineare, le donne non accedono perché siamo impure tentatrici figlie del diavolo etc etc). Non ci insegna ad accettare tutto acriticamente, non ci vuole passivə, ma piuttosto attivə conoscitorə di noi stessə e del mondo. Ci dimostra come sia possibile aprirsi alla pienezza e alla ricchezza delle esperienze, siano esse positive e rigeneranti o piuttosto di disagio e sofferenza. Non è dunque una forma di evitamento ma piuttosto di attraversamento del dolore come dimensione dell’umano, che non deve essere negato ma affrontato con presenza, risorse individuali e creatività.

Ma cosa ancora più interessante, la mindfulness in realtà parte da una rivendicazione personale di accettazione per farsi poi in potenza riproduttrice collettiva di accoglienza. Qui sta nella mia lettura il segreto nascosto della mindfulness, il vello d’oro dei nostri giorni per curare le ferite del mondo (mi scuso per la deriva un tantino utopistica). 

Se da un lato essa ci consente di essere più gentilə con noi stessi, si fa promotrice del verbo dimenticato della gentilezza verso altrə, intenso come ciò che è diverso da noi. Ci permette di accettare ciò che non capiamo, di essere apertə alla conoscenza di ciò che ci è sconosciuto, di incontrare, di accettare e di (ac)cogliere tutto ciò che ci è familiare con nuovi occhi e ciò che sentiamo lontano da noi con curiosità. 

Questa pratica sta alla base della relazione con noi stessi e con lə altrə. Ci fornisce un linguaggio universale per la comprensione reciproca e la condivisione di vissuti, esperienze, di gioie e dolori del giovane Werther. Forse possiamo davvero agire un dialogo diverso, meno giudicante e forse, ma dico forse, possiamo scoprire cosa significa davvero integrazione: incorporazione sociale, per diventare un corpo sinuoso ed armonioso in costante ridefinizione di se stesso.