Cosa c’è di sbagliato nel concetto di ripartenza?

Negli ultimi anni ormai siamo statə bombardatə da questo termine “ripartenza”, così immediato nella sua semplice comprensione eppure così evocativo. Ripartire significa cominciare nuovamente a costruirci con rinnovato entusiasmo, più o meno lo stesso della Murgia quando deve recensire un libro di Fabio Volo. La volontà collettiva di ripartire ci comunica la necessità di ripresa del lavoro, della scuola, dell’attività fisica, della dieta, dello shopping compulsivo, dell’insoddisfazione per il proprio fisico, dello stress da mantenimento di relazioni amicali ormai consunte, della competizione spasmodica idillicamente meritocratica nel trovare un’occupazione decente.

Ripartire significa praticamente lasciare in frigo a marcire i ricordi di disastrosi lieviti madre dimenticando, allo stesso tempo, quanto fosse stimolante imparare e investire tempo nel creare qualcosa di nuovo, nell’attendere con pazienza che crescesse, che si nutrisse, che cambiasse forma e che fosse pronto per essere utilizzato al momento giusto, nel modo giusto.

Illustrazioni da micidiale malinconia estiva di @giulia_tassi_illustrator

Tuttavia, riflettendoci a fondo (sì ho speso le mie vacanze in Germania vagliando ogni mio pensiero a riguardo in ogni angolo della mia mente e fagocitando riviste/articoli e libri sulla mindfulness) ripartire e ricominciare con il tram tram della vita quotidiana mi sembra che cancelli le opportunità di revisione del nostro sistema socio-economico che ci sono state fornite dalla pandemia. Ci viene chiesto di dimenticarci dei sogni di cambiamento e di miglioramento proprio come si fa quando si torna dalle ferie e la sensazione dell’acqua sui piedi viene sostituita dalle caviglie gonfie per le troppe ore in piedi a consegnare volantini a 4 euro l’ora. 

Mi spiego meglio. Ad un occhio attento, il blocco delle attività sociali e lavorative, i lockdown intermittenti e le chiusure dei luoghi di svago possono aver suggerito la necessità di riformare uno stile di vita troppo intrinsecamente legato al consumo, al lavoro a cottimo, all’insoddisfazione, all’apparenza e all’esaurimento delle risorse ambientali. Ogni tanto, si legge in qualche articolo di giornale “ripartire con consapevolezza” giusto così per indorare un pò la pillola, per cercare di smussare l’evidenza degli effetti corrosivi che il sistema capitalista vigente sta creando e soprattutto per esternalizzare la colpa attribuendo al singolo la responsabilità di essere cosciente dell’impatto delle proprie azioni nel mondo sia a livello personale, che economico e ambientale. Ma non c’è nessuna consapevolezza nel mentare questo modello che ci è tanto familiare e comodo, quanto distruttivo e miope.

Il termine ripartenza è ormai diventato di seconda mano, così spesso usato da diventare logoro e svuotato del suo senso originario di strumento di sprono e di rivincita. Una parola ombrello utilizzata in modo spasmodico. Prima per affrontare le difficoltà della crisi economica del 2008, poi per i cambi di governo, per le riforme lavorative e sociali, per il Covid, per i piani di ripresa ma anche per i rapporti interpersonali, per le crisi identitarie, per l’attività fisica bulimica dopo i cenoni di Natale e le abbuffate di Capodanno (per chi se le può ancora concedere). 

Illustrazioni da micidiale malinconia estiva di @giulia_tassi_illustrator

L’epidemia da Covid ha riguardato e riguarda tuttora la storia con la s maiuscola, quella individuale, collettiva, nazionale, internazionale, globale. Ci ha interrogati sui nostri sistemi economici, sociali, relazionali, sanitari, sull’educazione e la trasmissione della conoscenza, la sostenibilità ambientale e i destini delle istituzioni politiche. Ha messo in crisi le nostre convenzioni e ha portato alla luce la complessità della nostra realtà. Ci ha fatto pensare o meglio ripensare i nostri stili di vita e le nostre scelte. Ci ha dato degli spunti generativi e potenzialmente trasformativi senza precedenti.

E noi che ne facciamo? Ci rifugiamo nelle vecchie abitudini, ce ne dimentichiamo. Torniamo quelli che eravamo, tabula rasa post trauma e distress collettivo. Scegliamo cioè la via semplice, quella della ripartenza. Quella che ci dice di alzarci e di ripercorrere gli stessi passi, magari con qualche riformina giusto per metterci l’anima in pace e convincerci, dicendola alla Peter Cameron, che tutto quel dolore c’è stato utile. Scegliamo cioè di dimenticarci delle nostre riflessioni, di non riconoscere gli errori. Scegliamo di applicare punti di sutura, che sono fatti con cotanta precisione maniacale da farci dimenticare che lì c’era una ferita grande tanto da attraversare il mondo. Non optiamo per i punti di rottura, perché fanno male e perché rendono evidenti le contraddizioni delle nostre esistenze esposte costantemente a (necessarie) incertezze e cambiamenti.

Perché invece di ripartire, non cerchiamo di ricostruire da zero, di cambiare, di creare?
Perché invece di un “piano nazionale per la ripresa e la resilienza” non scriviamo un piano nazionale per la ricostruzione e la sostenibilità sociale, economica ed ambientale?
Perché non navighiamo nel mare di possibilità che la pandemia, nella sua nefandezza, ci ha fornito?
Perché non scegliamo la limpidezza dell’acqua estiva alle burrasche dei mesi passati?

Dobbiamo sfidarci un pò di più se vogliamo dei risultati più soddisfacenti, dobbiamo rischiare, andare a largo.